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La classifica delle 25 Top Companies in Italia secondo LinkedIn

Top Companies 2024 è la classifica annuale realizzata da LinkedIn esaminando azioni e percorsi di carriera di milioni di professionisti presenti sulla piattaforma tra gennaio e dicembre 2023.
La Top Companies 2024 identifica le 25 aziende italiane che più di altre si distinguono come luoghi di lavoro per la crescita e lo sviluppo professionale.

La metodologia utilizzata include non solo la stabilità, ma anche la diversità di genere di ciascuna azienda, nonché la crescita delle competenze e la capacità di avanzare internamente ed esternamente all’impresa.
Per realizzare la classifica Top Companies 2024, pubblicata dalla redazione di LinkedIn Notizie, i data scientist di LinkedIn hanno condotto un’analisi riguardo ad alcuni temi chiave (ad esempio, cosa significhi riuscire a costruirsi una buona carriera professionale), e li hanno combinati con i dati unici dalla piattaforma LinkedIn.

Quest’anno 11 new entry, e sul podio resta la consulenza

Quest’anno sono undici le aziende che conquistano per la prima volta un posto tra le 25 Top Companies italiane. Tra queste, Hippocrates Holding, Bayer, Campari e BIP.
Rispetto al 2023 la lista si aggiorna di nuove realtà dove poter sviluppare la propria carriera, ma il settore della consulenza aziendale risulta dominante, seguito dall’industria farmaceutica, manifattura e beni di consumo.

Nell’ambito consulenza e servizi aziendali, Accenture e Bain Company, sul podio, seguite da Intellera Consulting e Deloitte, sono tra le conferme del 2023, raggiunte dalle new entry Boston Consulting Group (Bcg) e BIP.

Heineken e Campari per la prima volta portabandiera del Food Beverage

Al fianco della crescita del settore farmaceutico e della salute, che vede Hippocrates Holding, Bayer e Eli Lilly and Company nella Top 25, rientrano i settori manifatturiero e dei beni di consumo, con EssilorLuxottica al 10° posto, Sfk Group al 14°, Procter Gamble e Siemens al 22° e 23°.

Rispetto allo scorso anno, guadagnano posizioni gli operatori del settore bancario-assicurativo, con Intesa Sanpaolo che conquista la vetta della classifica, Unicredit che si conferma stabile (al 7° posto) e Bnp Paribas che si posiziona al 15° posto.
Inoltre, The Heineken Company (19°) e Campari Group (20°) sono per la prima volta portabandiera del settore Food Beverage. 

La lista completa delle magnifiche 25

Ecco la lista completa delle Top Companies Italia 2024, come riporta Adnkronos: Intesa Sanpaolo (1°), Accenture (2°), Bain Company (3°), KONE (4°), Hippocrates Holding (5°), Ferrovie dello Stato (6°), Unicredit (7°), Intellera Consulting (8°), Antares Vision (9°), EssilorLuxottica (10°), STMicroelectronics (11°), LyondellBasell (12°), Bayer (13°) SKF Group (14°), BNP Paribas (15°), Deloitte (16°), Iveco Group (17°), Eli Lilly and Company (18°), The Heineken Company (19°), Campari Group (20°), Cisco (21°), Procter Gamble (22°), Siemens (23°), Boston Consulting Group (BCG, 24°), BIP (25°).

AI generativa: nel 2024 in EMEA la spesa aumenta di due terzi

Emerge dalla ricerca di Lenovo, contenuta nel CIO PlayBook 2024: It’s all About Smarter AI. Nel 2024 la spesa per l’AI delle aziende dell’area EMEA crescerà del 61%.
Per il 40% di loro l’AI rappresenta un “punto di svolta”, con il 25% degli investimenti destinati all’AI generativa, un altro 25% a quella interpretativa e un ulteriore 25% al machine learning.

Quasi tutte le imprese europee stanno incorporando progetti di AI generativa nelle strategie aziendali, nei processi e nelle offerte. Circa due terzi (57%) hanno già investito in AI e un ulteriore 40% prevede di farlo nel corso dell’anno, mentre solo il 3% non ha intenzione di attivare progetti.

Un interesse che varia tra i settori

Le imprese dell’area EMEA prevedono di implementare strategie di AI nel cloud ibrido (48%) o privato (24%), con solo il 17% che opta per il cloud pubblico, in conseguenza delle rigorose normative sulla privacy dei dati, in particolare nell’Europa continentale.

L’interesse per l’AI varia tra i settori. Le aziende manifatturiere sono le più entusiaste (47%), le telco le meno entusiaste (22%), ma la maggior parte delle aziende di ogni settore ha già investito nell’AI generativa: il 50% delle organizzazioni governative, il 65% telco e il 67% del settore bancario, servizi finanziari e assicurativi (BFSI). 

Tutti i settori, riconoscono l’importanza dell’edge computing nello sviluppo di progetti di AI, con organizzazioni di ogni settore che hanno aumentato gli investimenti (+29% manifatturiero, +60% Tlc).

L’Italia investe di più nell’AI generativa

In Italia si registra la percentuale più bassa (2%) di CIO che ritengono l’AI “una distrazione”. L’Italia, insieme all’Olanda, è il mercato con il tasso maggiore di investimenti in AI generativa già pianificati (68%), media EMEA 56%).
Non solo, l’Italia è il mercato in cui si registrano meno difficoltà ad assumere personale con competenze AI (34%), rispetto a una media nella regione del 55.3%.

Nel 2024, i trend più rilevanti per l’Italia mostrano una crescita del 40% di investimenti in tecnologie edge, di poco superiore alla media EMEA (38%) con i principali investimenti su progetti di AI generativa, modernizzazione delle infrastrutture e piattaforme di HPC.
Inoltre 7 aziende su 10 hanno già pianificato investimenti in Gen AI, il 30% lo farà nel 2024. Solo il 2% non ha in previsione di farne.

Le sfide tecnologiche

Per il 40% delle aziende la più grande sfida tecnologica dell’AI generativa rappresentata dai limiti di capacità dei modelli, seguita dai timori riguardo al potenziale uso improprio della tecnologia e le informazioni errate (37%).
Altre sfide includono la ricerca di una piattaforma dati affidabile (36%) e il ricorso a terze parti (35%) per lo sviluppo dell’AI generativa.

A livello organizzativo, riporta Ankronos, il problema più citato è quello culturale, che riguardava i timori dei dipendenti riguardo allo spostamento del posto di lavoro (40%), seguito dalle sfide IT (45%), inclusa la resistenza da parte dell’IT non abituato a implementare strumenti e tecnologie di AI in continua evoluzione.

Quanto costano le dimissioni del personale alle imprese? Fino a 2 milioni di euro l’anno

Tra le spese legate all’onorario di un’agenzia di head hunting e quelle relative a un periodo di mancata produttività, quando un’azienda di medio-grande dimensione (500 dipendenti) perde talenti e deve assumerne di nuovi il costo che deve affrontare è di circa 2 milioni di euro l’anno.
È quanto emerge dal terzo Outlook dell’Osservatorio sulla formazione continua curato da OfCourseMe.

“Supponiamo di avere un’impresa di 500 persone, con una perdita di figure qualificate, churn, dell’8% annua. Abbiamo calcolato che i costi affrontati, in termini di spese per le agenzie di head hunting e mancata produttività, e tenendo conto del tempo medio per l’assunzione di una nuova persona, pari a 2,5 mesi, è di 2 milioni di euro in un anno”, spiega Davide Conforti, Presidente dell’Osservatorio e Founder di OfCourseMe.

Come affrontare il vuoto di competenze?

La domanda che si è posto l’Osservatorio è la seguente: come possono le imprese affrontare la ‘piaga’ della perdita di persone chiave, il conseguente vuoto di competenze, e al contempo, cercare di contenere i costi?

“La risposta risiede nell’upskilling – aggiunge Davide Conforti -, una strategia vincente che non solo mitiga i rischi, ma contribuisce attivamente a migliorare il business”.
Ma quanto è effettivamente tangibile l’impatto della formazione? E, soprattutto, è possibile calcolarne il ROI?

Il ROI dell’upskilling si attesta da 3 a 6 volte l’investimento iniziale

“Grazie a iniziative di sviluppo professionale è possibile mitigare il churn di almeno il 10% – sottolinea Conforti -. Questo equivarrebbe a un risparmio di 200 mila euro”.
Confrontando il costo medio di un piano di upskilling su una popolazione di circa mille persone con i benefici derivanti dalla riduzione del churn i risultati calcolati dall’Osservatorio sono sorprendenti. Il ROI dell’upskilling si attesta infatti tra 3 e 6 volte l’investimento iniziale. Ciò dimostra che la formazione continua non è solo una spesa necessaria, ma un investimento strategico che si ripaga ampiamente da sé già nel corso del primo anno.

I percorsi di formazione continua devono essere personalizzati per avere un effetto positivo

“L’effetto positivo della formazione richiede, però, un approccio strategico da valutare puntualmente in relazione alle prospettive dell’impresa – puntualizza ancora il manager -. È necessario avere chiaro quali siano le competenze critiche e gli skill gap su cui intervenire. Da qui, avviare percorsi di upskilling personalizzati, in grado di coinvolgere le singole persone”.

Benefici fiscali e livelli di retribuzione: le leve per il rientro degli expat

Maggiori vincoli burocratici, difficoltà a trovare alloggio, bassi livelli di retribuzione, scarse opportunità di carriera, qualità di vita che non soddisfa le aspettative, sono tra le preoccupazioni più sentite dagli expat italiani.
Il fenomeno della ‘fuga di cervelli’ e del trasferimento degli italiani all’estero non è nuovo, e continua ad accendere il dibattito sulla perdita di talenti di alto valore, che rischia di ridurre la competitività dell’Italia all’estero.

“La pandemia ha segnato uno spartiacque importante che ha spinto molti alla ricerca di opportunità all’estero – evidenziano Carlo Majer ed Edgardo Ratti, co-managing partner di Littler Italia -. La vastità del fenomeno trova conferma anche nei risultati dell’ultima edizione della nostra indagine annuale, European Employer Survey 2023, che ha rivelato che quasi la metà delle aziende intervistate concede ai dipendenti di lavorare dall’estero”. 

Agevolazioni fiscali per chi torna in Italia

Accanto alle possibilità di carriera, agli stipendi, ai vincoli burocratici, c’è poi un aspetto che è stato dirimente nella scelta effettuata dai tanti che, al contrario, negli ultimi anni sono tornati a lavorare in Italia: la variabile fiscale.

“Le agevolazioni fiscali, concepite inizialmente come misure volte a favorire il ‘rientro dei cervelli’, sono state successivamente applicate a una platea molto ampia di lavoratori – sottolinea Linda Favi, Senior Associate Studio Legale Ughi e Nunziante -. Le misure hanno avuto un grande successo, ma si sono prestate anche a varie forme di abuso, quale il trasferimento all’estero per brevi periodi per poter beneficiare per 10 anni di una drastica riduzione delle imposte”.

Più vincoli alla normativa di vantaggio

Per questo, dal primo gennaio 2024 il governo ha previsto di ridurre la portata dei benefici, abbassando la percentuale di esenzione del reddito e la durata del beneficio.

“Per l’anno fiscale 2024 si prevede un ‘irrigidimento’ della normativa di vantaggio, poiché è stata ridotta la riduzione della base imponibile dal 70% al 50% con un tetto massimo di 600mila euro, senza specificare se annuo o per i 5 anni. Inoltre, i soggetti che richiedono l’applicazione non devono essere stati residenti in Italia nei precedenti tre anni e devono impegnarsi a risiedere fiscalmente nel nostro paese per almeno 5 anni -. aggiunge Paolo Borghi, Partner di Moore Professionisti e Associati -. Inoltre, l’attività deve essere prestata per la maggior parte del tempo nel territorio italiano”.

L’Italia rischia di non riuscire più ad attrarre talenti dall’estero 

Sono richiesti però anche requisiti di elevata qualificazione o specializzazione, attestata dal paese di provenienza e riconosciuta in Italia, come riferisce Adnkronos. 

“Tuttavia, queste norme potrebbero non avere l’effetto sperato, ovvero, attrarre talenti o persone ad alto reddito, se non sono accompagnate da un sistema ‘paese’ che favorisca l’accoglimento di queste persone, che generalmente hanno alte aspettative lavorative e di ‘qualità della vita’ – continua Borghi -. La variabile fiscale è solo una delle leve per attrarre i talenti o le persone ad altro reddito, ma non l’unica e deve essere accompagnato da una serie di altre attività, per offrire concrete opportunità di crescita professionale ed elevare la qualità di vita per avere un concreto effetto positivo per l’Italia”.

Responsabili marketing, come vedono il futuro?

Anche se il periodo che stiamo vivendo è di grande incertezze, in tutti gli ambiti, i responsabili del marketing guardano al futuro con ottimismo. Tanto che sono propensi ad investire in attività di costruzione del brand a lungo termine, tutelando il proprio budget.
Lo rivela il recente “CMO Outlook Report” di GfK, che evidenzia quanto i responsabili del marketing si affidino a nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale e gli insight in tempo reale. Tuttavia, il report mette in luce anche un notevole divario tra le aspettative dei marketer e quelle dei consumatori riguardo alla sostenibilità.

Attività a breve termine? No grazie

In un periodo di incertezza economica, i responsabili del marketing potrebbero essere tentati di concentrarsi sulle attività a breve termine che garantiscono risultati immediati, riducendo gli investimenti a lungo termine. Tuttavia, sebbene questo approccio tattico possa temporaneamente migliorare i bilanci, gli investimenti nella costruzione e nel mantenimento di un marchio forte tendono a ripagare nel lungo periodo. Fortunatamente, sembra che i responsabili del marketing abbiano abbracciato questo approccio.
Il nuovo report “CMO Outlook – Data, Decisions, and Optimism: How CMOs are driving change in an evolving world” di GfK mostra che, nonostante le crisi in corso, oltre i due terzi (70%) dei leader del marketing a livello internazionale investono oltre la metà del loro budget in iniziative a lungo termine, come campagne di costruzione del brand. Tra i CMO, questa percentuale sale al 78%.

Analizzando i dati per settore, i responsabili del marketing delle aziende di tecnologia dei consumatori (76%), dell’automotive (76%) e del retail (74%) sono quelli che puntano di più sulle strategie di costruzione del marchio a lungo termine. Anche le aziende B2B sono particolarmente orientate agli investimenti a lungo termine.

Ottimismo per quello che verrà

Nonostante la crisi, la fiducia nel futuro rimane elevata: quasi tre quarti dei responsabili del marketing dichiarano che la propria azienda è cresciuta negli ultimi tre anni. Ancora più alta (78%) è la percentuale di coloro che si dichiarano ottimisti rispetto al futuro.
Questi marketer ottimisti sono anche quelli che si concentrano maggiormente sulle azioni di costruzione del marchio a lungo termine (77%), suggerendo un legame tra ottimismo e investimenti protrati nel tempo.

La maggior parte dei responsabili del marketing mostra anche una notevole fiducia nei propri budget. A livello internazionale, quasi due terzi dichiarano di essere in grado di giustificare facilmente le proprie esigenze finanziarie, soprattutto in Nord America ed Europa. I marketer particolarmente ottimisti dichiarano di non avere problemi a finanziare le proprie spese di marketing.

Insight in tempo reale per ottimizzare le campagne

I CMO europei si distinguono per l’utilizzo degli insight in tempo reale. L’analisi dei dati e degli insight sui consumatori sta diventando sempre più importante per ottimizzare le campagne. Il 61% dei responsabili del marketing dichiara di ricevere insight operativi immediatamente dopo la raccolta dei dati o in tempi brevi, mentre solo il 3% ritiene che la generazione di insight richieda troppo tempo per essere utile.

Le aziende più grandi sembrano avere un vantaggio, con una maggiore percentuale di insight generati in tempo reale. L’Europa è in testa, con il 33% dei marketer che afferma di ricevere insight in tempo reale, rispetto alla media globale del 26%. 

Intelligenza artificiale e sostenibilità 

L’intelligenza artificiale sta trasformando il modo di lavorare nel settore del marketing. Quasi la metà dei CMO a livello mondiale (45%) afferma di utilizzare già l’IA, mentre il 40% conosce o utilizza i modelli di machine learning. L’adozione di ChatGPT è stata rapida, con il 36% degli intervistati che lo utilizzava già a marzo 2023.
Inoltre, i marketer che lavorano in aziende più grandi sono più familiari con questa tecnologia e sono più propensi a essere early adopter rispetto a quelli che lavorano in aziende più piccole.

Tuttavia, sembra che i responsabili del marketing stiano deludendo il proprio pubblico in materia di sostenibilità. Dopo un’estate segnata da eventi meteorologici estremi, la sostenibilità è diventata una parte importante dell’agenda dei CMO, ma solo il 30% degli intervistati pensa che i loro consumatori si aspettino che si occupino di sostenibilità.
In generale, i responsabili del marketing devono tenere presente che qualsiasi impegno per l’ambiente e il clima deve essere autentico e a lungo termine per essere credibile per i consumatori.

I medici italiani sono esausti: lavorare nel Ssn è sempre più faticoso

Turni di lavoro lunghissimi, carenza di personale, scarsa sicurezza negli ospedali, compensi troppo bassi: per oltre 8 medici italiani su 10 lavorare nel Servizio sanitario nazionale è sempre più difficile, e l’89% di loro ritiene di non essere pagato abbastanza. Inoltre, per il 57% dei medici il carico di lavoro negli ospedali è aumentato, ma solo nel 27% dei casi è stato assunto nuovo personale. Tanto che se nel 2020 l’ostacolo principale per i camici bianchi era la burocrazia nel 2022 è la mancanza di personale (35%). Lo scenario è quello di un’insoddisfazione per la propria situazione economica. Per quanto apprezzino ancora il loro lavoro, solo il 60% dei medici sceglierebbe nuovamente questa professione.
È quanto emerge dall’indagine Univadis Medscape Italia, il portale di informazione per i professionisti della salute.

In ambulatorio si guadagna di più

“I medici italiani guadagnano in media 60.000 euro l’anno, ma esiste una grande differenza tra gli ospedalieri e chi opera soprattutto in ambulatorio, inclusi i medici di medicina generale – spiega Daniela Ovadia, direttrice di Univadis Medscape Italia e autrice del report -. Se per i primi si arriva in media a 56.000 euro l’anno, chi riceve pazienti in ambulatorio ne guadagna fino a 79.000, ben 23.000 euro in più. Le donne poi sono una categoria che viene ulteriormente penalizzata: in media guadagnano circa 20.000 euro all’anno in meno dei colleghi uomini, con l’aggravante di pagare spesso anche il conto più salato in termini di equilibrio tra vita privata e professionale”.

I giovani scelgono di lavorare all’estero

“La pandemia da Covid-19 ha portato a vari cambiamenti negli orari e nei salari, ma non è più la principale fonte di problemi all’interno degli ospedali. Le cause sono più strutturali e organizzative: c’è carenza di personale, bassa sicurezza per i medici, aumento delle aggressioni, diminuzione dei benefici, mentre gli stipendi restano sempre uguali. La conseguenza è che sempre più medici, soprattutto i più giovani, sono spinti ad andare a lavorare all’estero – aggiunge Ovadia -. Oppure, per ovviare alle difficoltà, si guarda alla sanità privata, un settore che attira sempre maggiore attenzione (32%)”.

La relazione con i pazienti è ancora motivo di gratificazione

A compensare almeno in parte il sentiment negativo rimane l’importanza della relazione con i pazienti, che per il 31% del campione resta uno degli aspetti più gratificanti del proprio lavoro. Altri motivi di soddisfazione personale sono la consapevolezza della propria bravura (26%), l’aver contribuito a rendere il mondo un posto migliore (12%) e l’orgoglio di essere medico (9%).
Rispetto all’indagine del 2020, riporta Adnkronos, un altro aspetto degno di nota è quello relativo alla telemedicina. Se nel report precedente si registrava scetticismo rispetto all’utilizzo dei nuovi strumenti digitali ora è in netta crescita chi utilizza strumenti di telemedicina (36%) e ne è soddisfatto (71%). E il 20% prevede di estendere la telemedicina alla teleconsultazione.

Intelligenza artificiale: le Pmi non investono, solo il 2% lo fa

Nonostante l’Intelligenza Artificiale nel nostro Paese sia protagonista di un ampio dibattito, e nonostante le sue potenzialità, dalle nostre aziende l’AI rimane ancora scarsamente utilizzata. In particolare, dalle imprese di minori dimensioni. Solo il 2% delle nostre Pmi con almeno 10 dipendenti dichiara infatti di aver investito in IT tra il 2019 e il 2021. Percentuale che sale al 10% considerando l’investimento in AI congiuntamente a quello effettuato nella tecnologia che costituisce il presupposto della sua adozione, i Big Data. È quanto è emerso durante i lavori del workshop ‘Transizione ecologica e digitale, politiche per il lavoro e imprese’, organizzato dall’INAPP (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) in cui sono stati presentati i nuovi dati della VI Rilevazione Imprese e Lavoro (RIL), condotta nel 2022 su un campione rappresentativo di circa 30mila aziende italiane.

Dati che riflettono l’eterogeneità del nostro sistema imprenditoriale

Si tratta di evidenze che cambiano significativamente in funzione della dimensione di impresa, della collocazione geografica e del settore di attività. La quota che adotta l’AI varia dall’1,5% nelle piccole aziende (con meno di 50 dipendenti) al 12% di quelle con oltre 250 dipendenti, dal 7% nel comparto dei servizi ad alta tecnologia all’1.2% nei servizi meno qualificati. La diffusione dell’AI, con tutto quello che ne consegue, non solo è perciò agli inizi, ma riflette anche una forte complementarità con le altre tecnologie digitali, quindi, una sostanziale eterogeneità del nostro sistema imprenditoriale.

Siamo ancora alla discussione tra “apocalittici e integrati”

“Mentre nel nostro Paese sull’Intelligenza artificiale siamo ancora alla discussione tra ‘apocalittici e integrati’ – afferma Sebastiano Fadda, presidente INAPP – i principali competitor investono convintamente in quest’area, destinata a migliorare i processi produttivi e l’organizzazione del lavoro. A oggi il primo gap che caratterizza le Pmi è senza dubbio la mancanza di cultura e di competenze in materia: sanno che l’Intelligenza artificiale esiste, ma ancora non sanno come utilizzarla per migliorare le proprie performance. Per molte si tratta di partire proprio dalle basi, ovvero dalla trasformazione digitale e dalla utilizzazione dei Big Data”. 

L’AI viene associata al forte aumento delle spese in formazione

Le analisi mostrano poi che l’investimento in AI di per sé non produce alcun effetto significativo sulla domanda di lavoro, mentre quando è effettuato in aggiunta agli investimenti in Big Data e robotica è correlato a un leggero incremento (+0.7%) della quota di posto di lavoro richiesti.
L’AI è associata infatti a un forte aumento delle spese in formazione professionale finanziate dalle imprese, riporta Italpress, anche se si considera l’AI in assenza delle altre tecnologie (+13%). Ciò supporta l’ipotesi che almeno per adesso la trasformazione dell’AI stia procedendo più all’interno delle aziende che nel ‘mercato’.

Diminuiscono le emissioni di gas serra, ma continua l’allarme per clima e siccità

Continuano a diminuire le emissioni di gas serra in Europa: nel 2019 erano il 24% in meno rispetto al 1990. E l’Italia è tra i cinque paesi Ue27 che forniscono il contributo maggiore a tale riduzione. Lo rileva l’Istat nel Rapporto annuale 2023.
Quanto alla qualità dell’aria nell’Ue27, l’esposizione a lungo termine ponderata con la popolazione al particolato PM2,5 tra il 2006 e il 2020 registra il -39,5%, raggiungendo 11,2 μg/m3 nel 2020. In Italia, però, il miglioramento è più lento, e nel 2020 si è arrivati a 15 μg/m3. In termini di mortalità connessa, l’andamento dell’esposizione a lungo termine al PM2,5 spiega le differenze tra l’Italia e gli altri maggiori paesi europei. Tra il 2005 e il 2020, mentre in Germania, Francia e Spagna le stime dei decessi prematuri da PM2,5 sono più che dimezzate i progressi dell’Italia sono stati più lenti (da 124 a 88).

Preoccupano il cambiamento climatico e l’effetto serra

In ogni caso, le tematiche ambientali si collocano ai primi posti tra le principali preoccupazioni dei cittadini italiani.
Nel 2022 oltre il 70% dei residenti in Italia, dai 14 anni in su, considera il cambiamento climatico o l’aumento dell’effetto serra tra le preoccupazioni prioritarie. Le preoccupazioni ambientali si declinano differentemente per classe di età. I giovani under34 sono più sensibili alla perdita della biodiversità (32,1% tra 14 e 34 anni contro il 20,9% degli over55), alla distruzione delle foreste (26,2% contro 20,1%) e l’esaurimento delle risorse naturali (24,7% contro 15,9%). Gli ultracinquantenni si dichiarano, invece, più preoccupati dei giovani per il dissesto idrogeologico (26,3% contro 17% under35) e l’inquinamento del suolo (23,7% contro 20,8%).

Meno piogge e temperature più alte: la disponibilità idrica si dimezza 

La riduzione delle precipitazioni, accompagnata dall’aumento delle temperature, ha portato a una minore disponibilità media annua della risorsa idrica, che nel trentennio 1991-2020 si riduce del 20% rispetto alla media del trentennio 1921-1950, raggiungendo nel 2022 il suo minimo storico, quasi il 50% in meno rispetto all’ultimo trentennio 1991-2020. Nel Rapporto annuale 2023 dell’Istat si sottolinea che a tale problema si associa una condizione di persistente criticità nell’infrastruttura idrica, infatti, nel 2020, il 42,2% dell’acqua immessa nelle reti di distribuzione dell’acqua potabile non arriva agli utenti finali.

Cala il volume della produzione agricola 

La siccità e i problemi di approvvigionamento di acqua, rileva l’Istat, hanno influito pesantemente sull’annata agricola appena trascorsa, facendo registrare, nei conti economici nazionali, una riduzione della produzione, del valore aggiunto e dell’occupazione del settore agricolo. Il calo dei volumi di produzione nel 2022 ha caratterizzato tutti i comparti produttivi, tranne quelli frutticolo, florovivaistico e le attività secondarie. In particolare, in flessione coltivazioni (-2,5% in volume), legumi (-17,5%), olio d’oliva (-14,6%), cereali (-13,2%), piante foraggere (-9,9%), ortaggi (-3,2%), piante industriali (-1,4%) e vino (-0,8%).

Dalle turbolenze alla perdita dei bagagli: gli italiani hanno paura di volare?

Quali sono le paure più comuni degli italiani in aeroporto, e cosa li preoccupa di più una volta saliti sull’aereo? Soprattutto perdere il volo o il bagaglio, ma anche le turbolenze e la sensazione di claustrofobia. Se alcuni si divertono dal momento in cui mettono piede in aeroporto, si godono l’intera esperienza senza pensieri fino a quando, arrivati a destinazione, ritirano le valigie, altri si preoccupano continuamente che possa accadere qualcosa e si lamentano di tutto ciò che riguarda il volo.
Ma secondo un’indagine condotta dal motore di ricerca di voli e hotel jetcost.it, che ha intervistato 3.000 persone di età superiore ai 18 anni che hanno viaggiato almeno una volta negli ultimi due anni, sette italiani su dieci amano l’esperienza del volo, e solo due su dieci sono aerofobici.

Sette su dieci apprezzano l’esperienza, ma il 78% ha qualche timore

Inizialmente è stato chiesto a tutti se l’esperienza di viaggio in aereo, dall’aeroporto di partenza a quello di destinazione, fosse stata gradita, e sette su dieci hanno dichiarato di aver apprezzato l’esperienza complessiva (69%). In seguito è stato chiesto a tutti gli intervistati se avessero qualche timore nel viaggiare in aereo in generale, e il 78% ha risposto di sì.

Da “suonare” ai controlli di sicurezza a perdere una coincidenza

Dividendo l’esperienza del volo tra la fase in aeroporto e il viaggio vero e proprio in aereo, agli intervistati è stato chiesto quali fossero le loro maggiori paure quando si trovano in aeroporto.
Le prime dieci risposte sono state perdere il volo, perdere il bagaglio, perdere il passaporto, la carta d’identità o la carta d’imbarco, ‘suonare’ ai controlli di sicurezza, vedere il proprio volo cancellato, dover aprire la borsa ai controlli di sicurezza, avere il bagaglio che pesa più del consentito, avere il volo in ritardo, essere sorpresi con qualcosa che non appartiene al proprio bagaglio, e perdere una coincidenza.

Il 21% soffre di aerofobia

Per quanto riguarda il volo, agli intervistati è stato chiesto se soffrissero di aerofobia, o paura di volare, e il 21% ha risposto di sì. Poi è stato domandato a tutti cosa trovassero più irritante, fastidioso o spaventoso durante il volo, con la possibilità di dare tre risposte. E le più comuni, riporta AGI, sono state il rumore (54%), non avere abbastanza spazio per le gambe (39%), la turbolenza (33%), dover aspettare gli altri passeggeri (31%), i prezzi elevati di cibo e bevande (26%), le misure di sicurezza (23%), posto a sedere angusto (21%), sensazione di claustrofobia (16%), e qualità del cibo (11%).
I rumori che più infastidiscono i passeggeri sono i bambini che piangono, le persone che parlano ad alta voce, i gruppi di giovani in gita che gridano o le ‘comitive’ di addio al celibato che fanno gli spiritosi, chi russa nel sonno, i genitori che sgridano i figli, e chi è sotto l’effetto dell’alcol.

Dalla parità di genere un contributo di 3.15 trilioni di euro al PIL europeo

Le pari opportunità di genere potrebbero apportare un contributo potenziale stimato fino a 3,15 trilioni di euro al PIL europeo entro il 2050. È essenziale comprendere l’importanza della parità di genere nel contesto dei fattori ambientali, sociali e di governance (ESG), come dimostrato dalle stime dell’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE). Se le donne avessero le stesse opportunità professionali degli uomini, il PIL europeo potrebbe crescere notevolmente entro il 2050. Pertanto, l’obiettivo delle pari opportunità deve essere raggiunto al più presto, non solo per quanto riguarda le posizioni manageriali, in cui la presenza femminile è ancora limitata, ma anche garantendo l’accesso all’istruzione e alla formazione professionale.

Le imprenditrici? Più resilienti e capaci di affrontare le sfide

Questa urgenza è stata sottolineata anche dalle imprenditrici europee di 24 nazioni consultate per l’Eurochambers Women Network Survey 2023. L’indagine ha analizzato lo stato attuale dell’imprenditoria femminile in Europa, concentrandosi sulle aziende guidate da donne, al fine di sviluppare iniziative mirate a supporto delle imprenditrici in tutto il continente. L’indagine ha raccolto oltre 800 risposte, che hanno evidenziato la resilienza delle imprenditrici nel fronteggiare le difficoltà, la loro capacità di adattarsi ai cambiamenti e di affrontare le sfide in modo tempestivo e lungimirante. Ciò è dimostrato dai dati raccolti riguardo alla transizione digitale e green delle imprese guidate da donne. Tuttavia, è emerso che le imprenditrici necessitano di maggiore attenzione da parte delle istituzioni pubbliche e di misure di sostegno specifiche.

Burocrazia e accesso ai finanziamenti le maggiori difficoltà per le donne 

In particolare, dalle risposte delle donne intervistate sono emersi i principali ostacoli che devono affrontare: la burocrazia e l’accesso al finanziamento, in cui spesso non godono delle stesse opportunità dei loro colleghi; le opportunità di carriera e la parità salariale, che richiedono la promozione di modelli di ruolo nei settori a predominanza maschile, l’attenzione all’istruzione e concrete opportunità di accesso alle posizioni manageriali.

Dall’Ue una direttiva per la presenza femminile nei CdA

Il tema della parità di genere in ottica ESG è stato affrontato anche in una tavola rotonda organizzata da Eurochambers Women Network in collaborazione con Unioncamere presso la sede di Si.Camera, l’Agenzia delle Camere di Commercio d’Italia. Durante l’incontro sono emersi importanti spunti, in particolare riguardo alle implicazioni della direttiva sull’equilibrio di genere nei consigli di amministrazione (CdA) delle imprese, approvata dal Parlamento europeo alla fine del 2022. Tale direttiva stabilisce che entro luglio 2026 le grandi società quotate in borsa dell’UE dovranno adottare adeguate misure per garantire una maggiore presenza femminile nei CdA. Questa direttiva rappresenta un passo importante verso la parità di genere, considerando che nel 2021 solo poco più del 30% dei membri dei CdA delle grandi aziende quotate erano donne.

Più donne ai vertici, migliori risultati 

I numeri dimostrano che una maggiore presenza femminile nei vertici aziendali ha un impatto positivo: quando la percentuale di donne nei CdA è compresa tra il 30% e il 40%, le imprese hanno maggiori probabilità di ottenere risultati finanziari migliori, rendimenti più elevati e migliori performance ESG. La parità di genere rientra appieno nella dimensione sociale di una società ed è quindi un fattore fondamentale per valutare il credito sociale di un’azienda e raggiungere livelli di business sostenibile.